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Deborah Mega

Deborah Mega

Archivi della categoria: NOTE CRITICHE

Pionieri o epigoni?

23 sabato Apr 2016

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Ariel, Cesare Pavese, Il Sentiero dell'Arte, Jean Luc Nancy, Luigi Pirandello, Marzocco

LIMINA MUNDI

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Caricatura di Charles Darwin, acquerello di George Richmond

Quando si vuol parlare di tradizione, imitazione, moda, creatività, libertà si rivela di indiscussa attualità un saggio giovanile di Luigi Pirandello dal titolo Sincerità, pubblicato nella rivista Ariel nel 1898. L’imitazione, freno alla creatività, si è imposta sempre di più come dipendenza da un modello di successo, facile ripetizione di una strategia consolidata. In Illustratori, attori e traduttori del 1908 Pirandello afferma che nel passaggio tra creazione e realizzazione deve costituirsi l’originalità, un equilibrio meraviglioso tra istinto e ispirazione. Già nel 1899, in L’azione parlata, pubblicata sul «Marzocco», gli era chiara l’impossibilità di imitare e riprodurre la vita: anche l’atto di creare la propria vita non è mai libero piuttosto determinato dalle convenzioni, dalla moda, dal compromesso sociale. 

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La casa di Asterione

15 venerdì Apr 2016

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Arianna, Asterione, Deborah Mega, George Frederic Watts, Jorge Luis Borges, labirinto, Minotauro, Mitologia, Teseo

LIMINA MUNDI

Trent’anni fa si spegneva a Ginevra lo scrittore argentino Jorge Luis Borges, uno degli scrittori più amati e apprezzati del XX secolo. Sperimentò e coltivò con passione diversi generi: poesia, saggistica, narrativa, fino a giungere all’elaborazione di una sua personale estetica. Nel 1984, infatti, in un’intervista comparsa sul quotidiano Il Tempo, al poeta italiano Luciano Luisi, che gli chiedeva se ci fosse differenza tra la poesia e la prosa, Borges rispose: “La differenza è nel lettore più che nel testo. Chi legge una poesia si aspetta emozioni, chi legge prosa si aspetta argomenti e informazioni, ma essenzialmente sono uguali. Io ho provato tutte le forme di espressione, ma non c’è differenza. Una differenza tipografica forse, ma nient’altro.” Per Borges l’essenziale è la passione e l’emozione; il punto di partenza di qualsiasi scrittura dunque dev’essere uno stato emotivo, non formale. Dopo gli anni di formazione dal 1914 al 1918, trascorsi in…

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La sorella di Shakespeare

13 mercoledì Apr 2016

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Deborah Mega, Virginia Woolf, William Shakespeare

LIMINA MUNDI

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Nel 1929 la scrittrice britannica Virginia Woolf pubblica un saggio narrativo dal titolo Una stanza tutta per sé. La scrittrice osserva che per secoli alle donne è stato negato l’accesso alla cultura ed è stato loro imposto un ruolo esclusivamente domestico. Secondo la Woolf, per dedicarsi alla letteratura occorrono alcune condizioni indispensabili: la disponibilità di denaro e una stanza per sé in cui poter scrivere. Il centro della narrativa “al femminile” è la casa, il luogo appartato in cui isolarsi per riflettere e scrivere, la “stanza tutta per sé” per l’appunto che la Woolf suggeriva alle studentesse del Newnham e del Girton College di Cambridge.

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Il “folle volo” di Ulisse

06 mercoledì Apr 2016

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Dante Alighieri, Deborah Mega, Divina Commedia, Ulisse

LIMINA MUNDI

(Ulisse di Sergio Fasolini, Tempera all'uovo su tavola) Ulisse, Sergio Fasolini, Tempera all’uovo su tavola

                    Né dolcezza di figlio, né la pieta
del vecchio padre, né ‘l debito amore
lo qual dovea Penelopè far lieta,

                                                  vincer potero dentro a me l’ardore
ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto
e de li vizi umani e del valore;

                                                    ma misi me per l’alto mare aperto
sol con un legno e con quella compagna
picciola da la qual non fui diserto.

                          (Inf.,XXVI, 94-102)

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UNA STORIA DI CAPPA E SPADA

02 giovedì Ott 2014

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Alexandre Dumas, Deborah Mega, Il Conte di Montecristo, Tom Reiss

Dumas padre da giovane

Nel 1865 Alexandre Dumas passeggiava nel foyer del Théâtre Français quando da un gruppetto di spettatori gli giunsero queste parole: «Sapete. Dicono che abbia parecchio sangue nero». L’autore de I tre moschettieri si voltò e replicò: «Ma certo signori. Ho sangue di nero: mio padre era un mulatto, mio nonno un negro e il mio bisnonno una scimmia! Vedete bene che le nostre due famiglie hanno la stessa filiazione, ma in senso inverso». Suo padre Thomas-Alexandre Dumas era nato nel 1762 nella colonia francese di Saint Domingue, l’attuale Haiti, figlio del nobile Alexandre Antoine Davy de La Pailleterie, generale d’artiglieria e di una schiava di colore, Marie Césette che tutti chiamavano “la femme du mas” cioè la donna della masseria. Nell’isola la popolazione originaria era stata gradualmente sterminata e vi erano stati deportati schiavi africani per un’economia di piantagione, vi erano coltivati infatti canne da zucchero,  cotone e tabacco. Alla morte della donna, Davy vendette i suoi figli per pagarsi la traversata e tornò in Francia, qualche tempo dopo tornò nell’isola, riscattò il primogenito ormai adolescente e lo condusse con sé. Il ragazzo, dopo aver ricevuto l’educazione tipica di un gentiluomo dei suoi tempi, divenne un abile spadaccino e, in seguito a contrasti con il padre, rinunciò ai titoli nobiliari e al suo cognome, acquisendo quello della madre. A ventiquattro anni si arruolò nell’esercito francese, ben presto per i meriti militari divenne colonnello, poi generale a 31 anni, il primo generale francese di origini afro-caraibiche. Le cronache militari del tempo lo descrivono come un generale apprezzato e stimato e pare che di questa popolarità Napoleone non fosse contento. Sposò la figlia di un albergatore, Marie Labouret, partecipò alle campagne in Vandea, d’Italia e di Egitto, dimostrando eccezionale valore e straordinaria forza fisica. Durante quest’ultima campagna il generale Dumas, definito “diavolo nero” dagli austriaci, disse pubblicamente a Napoleone che l’invasione dell’Egitto gli appariva ingiustificata e che avrebbe continuato a combattere con lui solo se avesse fatto gli interessi della Francia e non i propri. Napoleone, infuriato, lo accusò di essere un disertore, così il generale fu congedato e non potè più prestare servizio nell’esercito francese. Il vascello La belle maltaise che lo riportava in patria fu costretto a fermarsi a Taranto per gravi avarie e l’equipaggio fu catturato dai sanfedisti di Fabrizio Ruffo e consegnato ai Borboni. Il generale Dumas, dopo un periodo di quarantena nel lazzaretto, fu rinchiuso per due anni in una cella del Castello Aragonese di Taranto con il geologo Dolomieu (a lui si deve il nome delle Dolomiti, delle cui rocce studiò la composizione chimica). La Francia non provò neanche a negoziare il suo rilascio. Quando venne liberato, dopo la battaglia di Marengo, il generale era un uomo distrutto dalle privazioni e dai tentativi di avvelenamento con arsenico, era semiparalizzato e cieco da un occhio. In Francia intanto nel 1802 un decreto napoleonico introduceva nuovamente le leggi razziali mentre a Saint-Domingue gli schiavi insorgevano e lottavano per l’indipendenza dalla madrepatria. Al ritorno in patria al generale Dumas non venne neppure assegnata una pensione e nel 1806, a soli 43 anni sarebbe morto di cancro quando suo figlio, il piccolo Alexandre, futuro autore de “Il Conte di Montecristo” aveva poco più di tre anni. Così la vedova Labouret ricordò l’ex generale in una lettera del 1814: «era un soldato che il fato delle battaglie ha risparmiato ma che è morto nella miseria e nel dolore, senza decorazioni né compensazioni militari, vittima dell’implacabile odio di Napoleone e della sua propria bontà d’animo». Al generale Dumas infatti fu dedicata solo una statua a Malesherbes (ora conosciuta come la Place du Général-Catroux), eretta a Parigi nel 1913 ma distrutta negli anni quaranta del ‘900 dall’esercito nazista. In Mes Mémoires, il romanziere francese avrebbe ricostruito la biografia di suo padre attraverso i ricordi personali, quelli della madre e le testimonianze degli amici. Ne sarebbe uscito un personaggio le cui imprese mirabolanti avrebbero caratterizzato le successive vicende letterarie de I tre Moschettieri e de Il Conte di Montecristo. Il protagonista di uno dei più famosi romanzi d’appendice dell’Ottocento, Il Conte di Montecristo dunque fu ispirato allo scrittore dalla figura del padre, unico generale nero dell’esercito del Bonaparte. La prigionia di Edmond Dantes nel castello d’If riprende proprio l’esperienza del generale Dumas nel castello di Taranto mentre la figura dell’abate Farìa ricorderebbe quella di Dolomieu, allo stesso modo la sua leggendaria abilità nella scherma trova riferimento nella storia de I tre Moschettieri. Anche Montecristo non era solo l’isoletta dell’arcipelago toscano ma anche un villaggio situato sulla costa di Saint-Domingue. Dopo innumerevoli versioni cinematografiche dedicate alla storia de “Il Conte di Montecristo”, nel 2010 è uscito in Francia L’autre Dumas, un film di Safy Nebbou interpretato da Gérard Depardieu. Per il fatto che il protagonista che interpretava il generale Dumas fosse bianco e biondo scoppiò una polemica sul fatto che si occultasse l’origine nera del generale, ne scaturirono dibattiti sulla diversità e sulla promozione delle minoranze etniche in Francia, data la forte componente nera e maghrebina. La vicenda del generale Dumas ha spinto il giornalista scrittore Tom Reiss a realizzare un’opera di quattrocento pagine edita dalla Crown Publishers Group, dopo aver ricercato fonti nel corso di un decennio e raccolto testimonianze tra Francia, Caraibi, Taranto e Medio Oriente. Temi come la vendetta e il ricordo che sopravvivono al tempo e alle avversità, si intrecciano in tutta la biografia firmata da Tom Reiss. Fin dalla sua pubblicazione, il 18 Settembre 2012, il Conte Nero (The Black Count) di Reiss ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti, il più importante il Premio Pulitzer per la biografia nel 2013, proprio per la biografia avvincente quanto un romanzo del generale Thomas Alexandre Dumas, una storia di cappa e spada talmente vera da superare la fantasia del suo autore.

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BOVARISMO: desiderio di evasione

16 sabato Ago 2014

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Deborah Mega, Gustave Flaubert, letteratura, Madame Bovary

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Nel 1848 lo scrittore francese Gustave Flaubert si trovava ad affrontare un momento critico per qualsiasi scrittore, la mancanza di ispirazione. I suoi più cari amici, Louis Bouilhet e Maxime du Camp, gli suggerirono di trattare un argomento che gli permettesse di evitare, a loro avviso, i punti deboli della sua scrittura: l’eccessivo lirismo e la stravaganza dell’immaginazione. Pensò così di trattare un fatto di cronaca, quello di una piccola borghese di provincia, Delphine Couturier Delamare, seconda moglie di un ufficiale sanitario di Rouen, suicidatasi col veleno il 6 marzo del 1848, perché travolta dai debiti. Gli stessi temi Flaubert li aveva trattati anche in Passion et vertu, scritto quando aveva sedici anni, in Mémoires d’un fou e Novembre: in tutti emergevano la stessa incapacità di accettare la vita, la noia, i sogni di evasione, quell’atteggiamento che, dalla protagonista del suo romanzo, Madame Bovary, avrebbe preso il nome di bovarismo. Il termine, coniato da Barbey D’Aurevilly in una recensione, avrebbe rappresentato il titolo di un testo di psicologia del 1892 di Jules de Gaultier, che definì il bovarismo la “facoltà che ha l’uomo di concepirsi altro da com’è”. Madame Bovary incarna il malessere e l’apatia del nostro tempo, l’inquietudine esistenziale, l’insoddisfazione spirituale, la contraddizione lacerante tra ciò che si possiede e ciò che si desidera, la tendenza tipicamente umana di idealizzare una persona, un sentimento, un aspetto della propria esistenza e di conseguenza la scoperta che tutto ciò che si vorrebbe è circostanza impossibile da realizzare. Eppure nessuno condanna la donna, nemmeno l’autore, il quale critica la lettura dei romanzi tardo-romantici che hanno influenzato negativamente le fantasie e i sogni di Emma, probabilmente il personaggio letterario più riuscito; il suo carattere, i suoi stati d’animo affiorano da diversi elementi, dal monologo interiore che ricorda Joyce, dai gesti, dal portamento, dal paesaggio circostante. L’autore si immedesima talmente tanto nel suo personaggio da farlo vivere, secondo qualcuno avrebbe addirittura dichiarato “Madame Bovary, c’est moi”, affermazione sconvolgente per un autore del suo tempo. Anche la citazione che segue, “Ma una donna ha continui impedimenti. A un tempo inerte e cedevole, ha contro di sé le debolezze della carne e la sottomissione alle leggi. La sua volontà, come il velo del suo cappello tenuto da un cordoncino, palpita a tutti i venti, c’è sempre un desiderio che trascina, e una convenienza che trattiene.” È uno dei tanti passi che dimostrano la comprensione di Flaubert dei problemi che assillavano le donne del suo tempo e non solo. Dopo aver sposato Charles Bovary, l’unico potere che Emma può esercitare sul proprio destino è la scelta dell’adulterio, l’unica moneta che possiede per ottenere un qualche vantaggio è il suo corpo. Perfino quando vuole entrare nel magazzino di Monsier Homais, il farmacista di Rouen, per procurarsi l’arsenico con cui si toglierà la vita, deve far ricorso al fascino che esercita su Justin. Riguardo al tema del denaro, Flaubert disponeva di un prezioso documento, i Mémoires de Madame Ludovica, in cui si raccontano le spese eccessive con conseguente sequestro dei beni della moglie dello scultore Pradier. La redazione del romanzo fu lenta e faticosa: Flaubert scriveva dalle dieci alle dodici ore al giorno, di notte fino all’alba, incarnando il suo ideale di vita a servizio della letteratura e diventando ogni giorno di più, un “homme-plume“, un uomo penna. Madame Bovary uscì in sei puntate, tra l’ottobre e il dicembre del 1856, sulla “Revue de Paris“; molti dettagli realistici colpevoli di irritare la morale del tempo furono censurati, una buona sezione della terza parte, l’episodio della seduzione in carrozza per le strade di Rouen e la scena finale della estrema unzione di Emma furono completamente eliminate. Lo scrittore protestò vivacemente sulla stessa rivista e invitò i lettori a vedere negli ultimi capitoli “solo dei frammenti e non un insieme”. Il clamore suscitato dalla denuncia fu all’origine del grande successo di vendita quando l’opera uscì in volume. Tutti pensarono che il romanzo criticasse e trasgredisse la morale borghese, pochi invece colsero la rivoluzione formale operata sul genere.Pubblico e critica ne apprezzarono il realismo e l’osservazione clinica, Maupassant definì l’opera il primo grande esempio di romanzo post-balzachiano per l’analisi psicologica condotta e l’inserimento in un contesto socio-ambientale reso evidente dall’uso del sottotitolo, Costumi di provincia. L’obiettivo della impersonalità, secondo il quale l’autore doveva essere onnisciente come Dio, presente ovunque ma mai visibile, è perseguito con il massiccio uso della focalizzazione multipla, adottando cioè il punto di vista dei personaggi, e del discorso indiretto libero. La monotonia dell’esistenza e la malinconia di Emma sono espressi attraverso i suoi pensieri e nella descrizione di distese piatte, su cui lo sguardo vaga nell’attesa vana di qualcuno o qualcosa che non arriva, o di pranzi quotidiani deprimenti più che confortanti, nell’odore di bollito Emma sente “tutta l’amarezza dell’esistenza” o in alcune belle metafore che ricordano certi Spleen baudelariani. Emma Bovary era destinata a vivere nell’immaginario collettivo, Flaubert crea un ritratto di donna irresistibile e ne esplora tutta la bellezza e la sensualità, descrivendo la linea del collo, l’avorio delle unghie, lo sbattere delle ciglia, i movimenti delle labbra, le sfumature della capigliatura corvina, il colore cangiante degli occhi, i movimenti flessuosi; allo stesso modo alla fine evocherà le sofferenze dell’agonia e la decomposizione del cadavere. Come Don Chisciotte, personaggio amatissimo da Flaubert, Emma si interroga sullo scarto che separa la realtà dalla sua idea e non lo accetta, rifiuta la rassegnazione e la rinuncia, procede di frustrazione in frustrazione, di idealizzazione in idealizzazione fino al tragico epilogo del suicidio, unica via d’uscita. Baudelaire definì il personaggio un “bizzarro androgino”: l’ambizione, la spinta all’azione, il gusto per la seduzione, erano identificati infatti come qualità virili. Depressa e sofferente agli occhi del marito, frivola e leggera a quelli delle altre donne della cittadina, pericolosa e invischiante agli occhi degli amanti, è rigettata verso se stessa. Ne deriva un’immagine di solitudine e isolamento, Emma è imprigionata nello spazio geografico e sociale, nella propria casa, perfino nel proprio io. Qualsiasi tentativo di evasione é condannato alla sconfitta, perfino la maternità viene vissuta male e non come un dono meraviglioso. Emma avrebbe voluto un figlio maschio per riscattarsi e affermarsi, quando invece nasce una femmina, un’altra come lei, il dolore è grande e la bambina viene usata solo per riempire i vuoti della madre. In seguito all’espansione del mercato letterario e al conseguente aumento del numero di lettori, il bovarismo ebbe ampia diffusione e anche il numero di suicidi aumentò; negli stessi anni si parlò di “effetto Werther” in riferimento alla lettura de I dolori del giovane Werther di Goethe. Si cercò di frenare la lettura di romanzi fantastici e sentimentali che riempivano la mente di amori immaginari e di utopie. La lettura non produce lo stesso effetto su tutti; secondo A. Thibaudet, esiste il lecteur de romans ( che prende la lettura per una distrazione momentanea) e il liseur de romans (che confonde la letteratura con la realtà). La predisposizione individuale conta molto: la personalità isterico-narcisistica ad esempio è quella più congeniale all’identificazione con un modello romanzesco o cinematografico.

Il fenomeno resta attuale e preoccupante, ieri era causato e acuito dalla lettura di romanzi, oggi dalla noia e dal senso di insoddisfazione che stimola in alcuni casi la tendenza compulsiva all’acquisto di vestiti, gioielli, oggetti, a volte superflui, proprio come amava fare Emma Bovary. La conclusione non cambia: si resta sospesi tra ambiziosi sogni di gloria e vita mediocre, tra una splendida fantasia e una realtà che inevitabilmente si percepisce triste e opaca.

LE LEZIONI AMERICANE, un testamento incompiuto

31 giovedì Lug 2014

Posted by Deborah Mega in NOTE CRITICHE

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Deborah Mega, Italo Calvino, Le Lezioni americane

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Nel 1984 Italo Calvino fu invitato dall’Università di Harvard, a Cambridge nel Massachusetts, a tenere un ciclo di sei conferenze per l’anno accademico 1985-86, sul tema della letteratura nell’ambito delle Poetry Lectures dedicate al critico dantista Charles Eliot Norton. Le Norton Lectures presero avvio nel 1926 e, negli anni, sono state affidate a prestigiose personalità del mondo letterario, musicale o figurativo come T.S. Eliot, I. Stravinsky, J.L.Borges e, dopo Calvino, primo scrittore italiano a cui furono proposte, anche a Umberto Eco nel 1992 e a Luciano Berio nel 1993. Calvino aveva completato tutte le lezioni tranne l’ultima a causa dell’ictus che lo avrebbe colpito; secondo la moglie Esther Judith Singer l’ultima lezione avrebbe trattato il Bartleby di Melville e Calvino l’avrebbe scritta durante il soggiorno negli Stati Uniti. Anche le conferenze non furono mai tenute infatti il libro che le raccoglieva fu pubblicato postumo nel 1988 in inglese, col titolo Six Memos for the Next Millennium. Il titolo Lezioni americane invece, la cui prima edizione uscì presso l’editore Garzanti di Milano, fu desunto dal modo in cui le definiva Pietro Citati, quando andava a fare visita a Calvino.

Si tratta di un’opera affascinante, un bellissimo viaggio attraverso la letteratura occidentale che fa riflettere ed emozionare.  Calvino fa riferimento ad autori e testi della letteratura e della mitologia attraverso i secoli e riesce a combinarli in una trattazione coerente e metodica non perdendo mai di vista il filo conduttore della caratteristica esaminata. Riflettendo sul nuovo millennio infatti Calvino sceglie sei parole chiave che, a suo parere, dovranno caratterizzare la letteratura: leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità, coerenza (solo progettata).

“Dedicherò la prima conferenza all’opposizione leggerezza-peso, e sosterrò le ragioni della leggerezza“, così lo scrittore apre il ciclo di lezioni.

In quarant’anni di scrittura di fiction, si era reso conto di aver attuato una sottrazione di peso alle figure umane, ai corpi celesti, alle città, alla struttura del racconto e al linguaggio. Se non si trova il modo di evitare la pesantezza e l’opacità del mondo, aveva scritto, queste qualità si attaccano alla scrittura che non risulta più animata da “agilità scattante e tagliente”; la leggerezzadunque andrebbe perseguita come reazione al peso del vivere.  Il nuovo secolo é l’età dell’informatica e del virtuale ma allo stesso tempo non smette di trarre  insegnamento dai miti classici come quello di Perseo, eroe della leggerezza, che si difende da Medusa, simbolo della pesantezza della realtà, con lo scudo di bronzo, filtro tra lui e il mostro. La stessa funzione di mediazione dello scudo su cui si riflette Medusa, è svolta dalla letteratura e lo scrittore, che ha il dovere di rappresentare la realtà, deve evitare la pietrificazione, sfuggire “allo sguardo inesorabile della Medusa”. Per uccidere la Gorgone senza farsi pietrificare, Perseo ne rifiuta la visione diretta, la vede riflessa nello scudo, indossa dei sandali alati e custodisce in un sacco la testa anguicrinita per usarla come arma contro i suoi nemici. Suggestivo il passo in cui Calvino, riprendendo l’Ovidio delle Metamorfosi (IV, 740-752), spiega che Perseo è costretto a posare la testa di Medusa per lavarsi le mani e, affinchè il volto del mostro non ne sia danneggiato,  rende soffice il terreno con uno strato di foglie e ramoscelli marini che, a contatto con la testa mostruosa, si trasformano in coralli. Dal sangue della Medusa poi nascerà Pegaso, il cavallo alato caro alle Muse, altro esempio in cui la durezza pesante della pietra si trasforma nel suo contrario.

Procedendo nella lettura Calvino ci fa scoprire altri esempi di leggerezza e luminosità in Montale, Kundera, autore de L’Insostenibile Leggerezza dell’Essere, in cui la leggerezza diventa appunto insostenibile perché la pesantezza del pensiero umano non riesce a concepirla; cita ancora  Lucrezio che vuole scrivere il poema della materia costituita però da atomi invisibili,  Boccaccio nella novella del Decameron dedicata a Guido Cavalcanti, Dante, il Cyrano de Bergerac di Rostand, Leopardi, E. Dickinson, Kafka.  In Romeo e Giulietta di William Shakespeare, Romeo dice a Mercuzio“Under love’s heavy burden do I sink” ((Io sprofondo sotto un peso d’amore) e lui risponde You are a lover; borrow Cupid’s wings / and soar with them above a common bound.(Tu sei innamorato; fatti prestare le ali da Cupido e levati più alto d’un salto.) “Il faut etre léger comme l’oiseau, et non comme la plume”, diceva Paul Valery. In relazione alla seconda caratteristica, la rapidità, Calvino la introduce riprendendo una vecchia leggenda su Carlo Magno riportata dallo scrittore francese Barbey d’Aurevilly: in essa si parla di un anziano che s’innamora di una giovane, di un’ossessione necrofila, poi di una propensione omosessuale, infine della contemplazione malinconica del lago di Costanza in cui viene gettato l’anello. Il vero protagonista del racconto dunque è l’anello magico che determina le relazioni e i movimenti dei personaggi, così avviene nelle saghe nordiche e nei poemi rinascimentali come l’Orlando Furioso di Ariosto. Esistono diverse versioni della leggenda di Carlo Magno, una in latino di Petrarca, una del veneziano Sebastiano Erizzo, un’altra di Giuseppe Betussi in un trattato sull’amore, un’altra ancora di Gaston Paris. Ciascuno compie la sua operazione sulla durata: c’è chi dilata i tempi narrativi, chi li contrae, chi sorvola o censura alcune fasi. Calvino afferma di preferire la versione di Barbey d’Aurevilly per l’economia del racconto. Non si tratta solo di tagliare, abbreviare, sintetizzare: io stessa in questa veloce analisi dell’opera di Calvino sto privilegiando di volta in volta un aspetto piuttosto che un altro. L’iterazione e la digressione sono strumenti formidabili dello scrittore: grazie ad essi egli può dimostrare “l’agilità del ragionamento, l’economia degli argomenti, ma anche la fantasia degli esempi”, qualità del pensar bene, dice Galileo. E così c’è lo scrittore famoso per le sue digressioni come Sterne, il cui esempio sarà seguito da Carlo Levi, e chi invece eccelle nelle short stories come Borges. In ogni caso lo scrittore deve tener conto del tempo di Mercurio, che reca un messaggio d’immediatezza e di partecipazione al mondo che ci circonda e del tempo di Vulcano, che forgia la materia con aggiustamenti pazienti e meticolosi. Festina lente, dicevano i latini.

La terza caratteristica,  l’esattezza, per Calvino é un disegno ben definito, l’evocazione di immagini nitide e incisive così da essere definiti icastici, un lessico preciso. L’uomo si esprime in modo sempre più confuso e approssimativo come se la parola avesse perso peso e misura, le stesse immagini hanno perso forma e sono divenute inconsistenti, svaniscono come i sogni e lasciano una sensazione di alienazione e di disagio. Per spiegare l’esattezza ricorre a un passo dello Zibaldone in cui Leopardi, poeta del vago inteso come indefinito ma anche come piacevole, diventa poeta della precisione.  Per descrivere l’infinito ossia la massima espressione del vago si avvale dell’esattezza.  Esattezza e indeterminatezza si ritrovano anche nel romanzo di Robert Musil, L’uomo senza qualità. Cita Paul Valéry, che ha definito la poesia ” tensione verso l’esattezza” e la massima di Flaubert, Le bon Dieu est dans le dètail. Anche raccontando la storia più semplice non c’è limite alla minuziosità.

La visibilità è il tema della quarta lezione: Calvino si chiede se sarà possibile la letteratura fantastica del Duemila data l’inflazione di immagini. Lo scrittore ipotizza la possibilità di riciclare le immagini in un nuovo contesto oppure annullare l’esistente e ripartire da zero. Per definire l’immaginazione,  “l’alta fantasia”, ricorre a una citazione dantesca tratta dal Paradiso, per Dante le immagini piovono dal cielo, sono cioè ispirate direttamente da Dio; per gli scrittori moderni invece l’inventiva parte dall’individuo, da una sorta di inconscio individuale o collettivo. Esistono due processi immaginativi: quelli che partono dalla parola e giungono all’immagine visiva ed è ciò che accade quando leggiamo un libro che in noi evoca immagini, e quelli che partono dall’immagine per giungere all’espressione verbale, come avviene per il cinema in cui il regista è partito dal testo scritto per ricostruire la fisicità del racconto, fotogramma per fotogramma. Per Calvino, all’origine di ogni racconto c’è sempre un’immagine visuale, carica di significato. Allo stesso modo da qualsiasi terreno,  anche dal libro più tecnico o astratto di scienza o di filosofia si può essere stimolati alla fantasia figurale; purtroppo stiamo correndo il pericolo di perdere la capacità di focalizzare immagini a occhi chiusi e di pensare per immagini. Tra i diversi richiami e citazioni, Calvino fa riferimento a Il capolavoro sconosciuto di Honoré de Balzac, utilizzandolo come parabola sull’inafferrabilità dell’immaginazione visiva e sul profondo divario tra espressione linguistica ed esperienza sensibile. Per Balzac non è possibile trasporre l’immaginazione attraverso l’arte e chiunque sia ossessionato dal provare a farlo, rischia di perdersi: il vecchio Frenhofer dapprima elogiato e ammirato,  è incompreso dai colleghi e condannato alla solitudine, infine viene preso per pazzo dai pittori a cui mostra il suo capolavoro. Per spiegare la molteplicità, quinto valore da salvaguardare e il romanzo contemporaneo inteso come enciclopedia e come rete di connessioni tra fatti, persone, oggetti, Calvino parte da una lunga citazione di Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di Carlo Emilio Gadda e poi descrive il collega come un ingegnere con l’ossessione della scrittura e la mania dell’enciclopedismo. Ogni oggetto si trova al centro di una rete di relazioni, inoltre la conoscenza delle cose esige che tutto sia nominato, definito, collocato nello spazio e nel tempo. La stessa tensione tra esattezza razionale e deformazione degli eventi umani è stata espressa anche da Robert Musil inL’uomo senza qualità, da Marcel Proust in La Recerche e poi da Flaubert e da Queneau. Calvino cita altri esempi come il prediletto Borges ma la conclusione è la stessa: la molteplicità è una qualità da perseguire perché solo l’intreccio di saperi e codici offre una visione plurima e sfaccettata del mondo, del resto “Ogni vita è un’enciclopedia, una biblioteca, un inventario di oggetti, un campionario di stili, dove tutto può essere continuamente rimescolato e riordinato in tutti i modi possibili”.

Ecco allora l’ultimo insegnamento di Calvino, “la letteratura vive solo se si pone degli obiettivi smisurati, anche al di là d’ogni possibilità di realizzazione”.

Solo così, per esaurite che siano le storie, per poco che sia rimasto da raccontare, “Little is left to tell“, diceva Beckett in Ohio Impromptu, si continua a raccontare ancora.

MARGUERITE DURAS, un corpo a corpo con la letteratura

09 mercoledì Lug 2014

Posted by Deborah Mega in NOTE CRITICHE

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cinema, Deborah Mega, letteratura, Marguerite Duras

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Ricorre quest’anno il centenario della nascita di Marguerite Duras, scrittrice francese che ha legato il suo nome al romanzo autobiografico del 1984 vincitore del prestigioso premio Goucourt,  L’amante. Chi non conosce la Duras, il suo proverbiale cattivo carattere, il suo essere romantica e spregiudicata, appassionata ed eccessiva, commovente e arrogante al tempo stesso?Marguerite Germaine Marie Donnadieu era nata a Saigon nel 1914, dopo aver perso entrambi i genitori era stata mandata in collegio ed era vissuta nell’Indocina francese fino a diciotto anni. Successivamente si era trasferita in Francia per completarvi gli studi di diritto; qui avrebbe sposato lo scrittore Robert Antelme e cambiato il proprio cognome in Duras. Partecipa alla Resistenza e milita nel Partito Comunista Francese da cui sarebbe stata espulsa come dissidente nel 1950. Quando Antelme fu deportato a Dachau, alla sua liberazione, resa possibile grazie all’intervento di Mitterrand,  avrebbe dedicato tutta se stessa e ne Il dolore, ultima interpretazione teatrale di Mariangela Melato, avrebbe spiegato cosa può fare un uomo all’altro uomo. Dopo la liberazione Duras si unisce all’intellettuale Dyonis Mascolo, da cui avrà un figlio. L’esordio in campo letterario avviene con Gli impudenti nel 1942 e Una diga sul Pacifico, in cui la scrittrice racconta il fallimentare tentativo della madre di impiantare una risaia in una palude sul delta del Mekong e che Vittorini definì il più bel romanzo francese del dopoguerra; seguirono numerosi racconti brevi, altri romanzi come Moderato cantabile, diverse sceneggiature per il cinema e per il teatro, celebre quella di Hiroshima mon amour, film diretto da Alain Resnais. Dal romanticismo piuttosto convenzionale delle prime opere, la Duras passa alla sperimentazione e al descrittivismo del Nouveau roman, conseguente alla dissoluzione dei personaggi e della trama. Nelle sue opere emerge il ricordo della sua vita in Indocina, l’interesse per la società coloniale e per i temi della solitudine, dell’incomunicabilità, dell’alienazione. Condusse gli ultimi anni della sua vita sola e relegata in casa, evitando qualsiasi rapporto con gli altri, fino al delirio alcolico e megalomane della vecchiaia e alla morte, avvenuta a Parigi nel 1996. L’amante narra le vicende, in gran parte autobiografiche, della scrittrice nel periodo in cui, adolescente, visse con la madre e i fratelli a Vinh Long, piccolo centro sul fiume  Mekong. La storia è quella dell’incontro tra Marguerite e il figlio di un ricco cinese: un amore proibito per la giovane età della ragazza e per le convenzioni sociali. La relazione tra i due, infatti, osteggiata dal padre del giovane e utilizzata dalla famiglia della ragazza per trovare un po’ di sollievo alla povertà, termina con la partenza dal Vietnam di Marguerite e della sua famiglia. La scrittura è spoglia e disadorna ma allo stesso tempo intensa, arricchita da lunghe digressioni; lo stile privilegia la paratassi per l’utilizzo di principali e coordinate, caratteristica questa che influenza il lettore e spinge chiunque si accosti alla sua scrittura, a scrivere alla Duras. Esiste anche una riscrittura intitolata  L’amante della Cina del Nord, pubblicata in concomitanza con la trasposizione cinematografica del 1992, per la regia di Jean-Jacques Annaud. Sandra Petrignani ha dedicato un romanzo-biografia alla grande scrittrice francese, un ritratto da lontano, afferma nella postfazione, scritto con onestà e abilità senza però aver conosciuto di persona la Duras, per la paura inconscia della delusione e dello scontro con il suo brutto carattere.Marguerite, per i tipi di Neri Pozza, ha attraversato una lunga gestazione durata otto anni proprio per la necessità dell’autrice di porre distanza tra lei e il suo “personaggio”. Non c’è nostalgia in questo libro ma una ricostruzione vera e propria fatta anche di salti temporali, attraverso i quali si tenta di dare risposte e interpretazioni al personaggio Duras e alla crisi della letteratura. È significativo ad esempio analizzare il rapporto della scrittrice con sua madre, chiave per capire il suo caratteraccio e la richiesta esagerata di amore, che la porterà ad avere moltissimi amanti. Anche Del Vecchio Editore in occasione di questo centenario ha proposto un e-book, La minaccia della luce, intervista inedita realizzata dall’amica-biografa Michelle Porte e un volume inedito della Duras dal titolo La ragazza del cinema. Quest’ultimo, con la prefazione della Petrignani, contiene due sceneggiature, Il camion, la cui azione si svolge in una stanza in cui due personaggi, Depardieu e Duras leggono la storia di una donna, che ogni sera si fa dare un passaggio da un camion diverso e racconta la sua storia all’autista  e Agatha, dedicato al rapporto nostalgico e allo stesso tempo carico di tensione tra due fratelli che rievocano le estati da adolescenti. Anche queste opere confermano una volta di più l’acutezza di una grande osservatrice dei comportamenti umani. Una storia quella della Duras fatta di trionfi e di sconfitte, di autenticità e mistificazioni, lotte e ribellioni, slanci appassionati e rimpianti di vecchiaia, quando scriveva “Nessun amore vale l’amore o “Scrivere non insegna altro che a scrivere” che ben si presta alla trasfigurazione letteraria.  «Se non spiazza prima di tutto chi scrive, se non è una rivoluzione permanente, la scrittura non è nulla», sosteneva la Duras e ancora «Poiché sono una scrittrice, non ho storia, o meglio ho delle storie nella scrittura». Ne deriva un ritratto di donna libera, amata e odiata al tempo stesso ma sempre coerente e fedele ai suoi principi.

VERSO UNA NEUTRALITA’ DELLA LINGUA

09 mercoledì Lug 2014

Posted by Deborah Mega in NOTE CRITICHE

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Deborah Mega, Lingua italiana, Linguaggio sessista

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COME EVITARE LE FORME SESSISTE NELL’ITALIANO

Dell’importanza socio-politica della lingua ci si è resi conto da qualche tempo: solo nell’ultimo ventennio tuttavia, con il risveglio della coscienza femminista, con il moltiplicarsi di studi e approfondimenti sulla differenza di genere, si è cominciata ad acquisire consapevolezza di quanto e come la nostra lingua sia ricca di forme sessiste, che rispecchiano radicati valori patriarcali. Ciascuno di noi crede di poter controllare e manipolare la lingua secondo i propri bisogni e i propri scopi mentre è la lingua stessa che spesso ci parla, ci condiziona e produce effetti discriminatori e riduttivi nei confronti delle donne perché spinge a utilizzare lessemi, formule, immagini stereotipate. Diversi sono gli aspetti di problematicità che emergono nel corso del discorso. Secondo la teoria elaborata nei primi del Novecento da Edward Sapir e Benjamin Lee Whorf, il linguaggio influenza il pensiero e la nostra percezione della realtà. Questo modello ha preso il nome di “relativismo linguistico” a rilevare come il pensiero divenga “debole” in relazione alle possibilità “forti” che assume la competenza lessicale. La lingua rispecchia la società e la cultura in cui siamo immersi, ordina la realtà, la forma e la modella determinando e caratterizzando il modo di pensare comune: data la sua natura convenzionale, è facile dare per scontato il consenso al codice. Tra l’uomo e la realtà non c’è contatto diretto ma tutta una mediazione simbolica costituita da categorie percettive e concettuali, rappresentate appunto dalla lingua, dal mito, dalla religione, dall’arte; tale mediazione condiziona e guida la nostra visione della realtà, non a caso Cassirer aveva definito l’uomo “animale simbolico”. Recenti studi sui processi cognitivi hanno dimostrato che il nostro cervello pensi attraverso etichette linguistiche: anche quando non c’è chiesto di nominare gli oggetti, immediatamente dopo l’attivazione di aree cerebrali preposte alla visione, si attivano quelle preposte al linguaggio; di conseguenza elaboriamo pensieri e ricordi per mezzo del linguaggio verbale. La lingua segue di pari passo l’evoluzione della società, è un sistema di segni e regole che si trasformano nel tempo, essendo “una sovrastruttura, che nasce esclusivamente attraverso un processo naturale di sedimentazione a ritmo lentissimo…” [Devoto]. Fino a un secolo fa affinché un neologismo si affermasse, occorrevano tempi lunghi, nella società odierna invece é sufficiente un gruppo di trasmissioni televisive perché s’impongano in breve tempo diverse novità linguistiche. La lingua italiana presenta un alto grado di androcentrismo: tutto il patrimonio linguistico è organizzato intorno all’uomo. Sembrerebbe che in primo luogo sia avvenuta la cancellazione del femminile, poi la strutturazione secondo modelli che si riferiscono al maschile, successivamente la reintroduzione del femminile come variante. Si tratta di uno dei tanti condizionamenti che la donna ha dovuto tollerare per secoli. Per rendersene conto basta leggere i saggi della De Beauvoir, della Greer, dell’italiana Elena Gianini Belotti, che, nel 1970 scrisse il saggio “Dalla parte delle bambine” edito da Feltrinelli, sul condizionamento operato dalla scuola, dalla famiglia e dal contesto sociale sulle bambine. Il maschile assume i connotati di razionalità e concentrazione, il femminile diventa simbolo d’irrazionalità ed emotività, caratteristiche che ostacolano la conoscenza. Ne consegue la sua svalutazione. Anche nella costruzione della propria soggettività le bambine si sottovalutano mentre l’autostima da parte dei bambini appare esagerata. La stessa identificazione di genere e di conseguenza anche la scelta di giochi e giocattoli avvengono nell’età compresa tra i 2 e i 12 anni. In Francia il dibattito sulla questione di genere applicata alla lingua è talmente acceso e sentito che il ministro dell’Istruzione Vincent Peillon e la ministra dei Diritti delle donne Najat Vallaud Belkacem hanno ideato un programma scolastico contro il sessismo, Abcd de l’égalité, destinato alle scuole del primo ciclo. Linguisti e studiosi della lingua affermano che il genere grammaticale e il sesso non andrebbero confusi ma è innegabile che le parole riferite a uomini siano di genere maschile mentre quelle riferite a donne siano di genere femminile tranne che per poche rare eccezioni (es. la sentinella). Ora la dicotomia maschile/femminile è ovvia e necessaria; il problema però è che tale dicotomia non divide il mondo in due zone di pari poteri e importanza, mediante forme linguistiche stereotipate si rafforza la posizione di potere dell’uomo e la subalternità della donna nella società. Nelle coppie oppositive uomini e donne, ragazzi e ragazze, fratelli e sorelle, avviene sempre la precedenza del maschile affermandone la preminenza linguistica, un po’ come nei contrari il buono e il cattivo, il bello e il brutto, il vero e il falso, ecc. Secondo le regole grammaticali, alla presenza di una serie di nomi femminili e maschili, gli aggettivi, i sostantivi, i participi passati si concordano al maschile per assorbimento del femminile, anche quando c’è prevalenza di nomi femminili. Il fondamento androcentrico della lingua si ritrova anche nell’indicare le professioni, con facilità si utilizzano le forme cassiera, cameriera, infermiera, parrucchiera, riferite alle donne ma, nel momento in cui si passa a definire la professionista con laurea, emergono le incertezze e allora le forme ingegnera, prefetta, sindaca appaiono inconsuete e poco credibili, anche perché la presenza femminile in queste funzioni è ancora limitata. Se invece si fa riferimento a termini con il suffisso –essacome professoressa, (attestato per la prima volta nel 1881, nella Sintassi italiana dell’uso moderno di Raffaele Fornaciari) e dottoressa (utilizzato nel sonetto “La mi’ nora” di G.G. Belli del 1834), è evidente che tali resistenze linguistiche sono crollate miseramente e i termini risultano giustamente riscattati. C’è anche chi sostiene che termini come preside, deputato, notaio, ministro indichino ruoli e funzioni senza alcun riferimento di genere. La tesi è accettabile per lingue che non attuano distinzioni morfologiche di genere, non dunque per l’italiano. Il suffisso –trice oggi usato, dà luogo a forme regolari e diffuse comesenatrice, direttrice. Il suffisso –tora invece è stato spesso utilizzato per indicare professioni riferibili a una sfera sociale bassa come pastora, fattora. Molte professioniste preferiscono il titolo al maschile per trasmettere maggior rigore e serietà: tale svalorizzazione instaura una relazione psichica di dipendenza dagli uomini. Va evidenziato anche il peso diverso di alcuni aggettivi o sostantivi se riferiti a uomini o a donne. Serio ha un significato diverso rispetto a seria così come onesto/onesta, pubblico/pubblica, ecc. La disimmetria semantica intende più o meno consapevolmente richiamare la volontà di controllo sociale del corpo delle donne e del loro comportamento sessuale. Anche con aggettivi epiceni (uguali al maschile e al femminile), in molti casi, si usa l’articolo maschile quando si tratta di cariche di prestigio (Es.: il Presidente della Camera Laura Boldrini). Talvolta interviene addirittura il modificatore donnaanteposto o posposto al nome base (Es.: donna sindaco oppure ministro donna, ecc.) istituendo così altre forme disimmetriche: la donna sindaco deriva infatti dal sintagma «la donna che ha la funzione di sindaco», così come il «sindaco donna» deriva dal sintagma «il sindaco che (però) è donna»; spesso, il modificatore appare ingiustificato perché basterebbe l’articolo a specificare il genere. Altre forme discutibili sono zitella e scapolo; nel linguaggio burocratico si utilizzano rispettivamente nubile e celibema, mentre per zitella s’intende una donna nubile, di età avanzata e si usa in senso ironico o dispregiativo, scapolo si utilizza con riferimento agli aspetti più invidiabili della libertà maschile nei rapporti con la donna o con riferimento alla solitudine. Fortunatamente espressioni come “prendere moglie”, “portare all’altare” che ricalcano sempre lo stesso stereotipo, sono ormai anacronistiche. Anche il termine maschile / femminile ha una diversa connotazione: mentre è normale dire “una donna molto femminile”, non lo è allo stesso modo per l’uomo, mai sentito, infatti, “un uomo molto maschile”, semmai virile. Perfino nelle metafore non c’è reversibilità: esiste la “mangiatrice di uomini” ma non “il mangiatore di donne”, allo stesso modo l’espressione “gambe mozzafiato” si usa esclusivamente per la donna. Tra stereotipi e clichés c’è anche il pregiudizio della “piccolezza” della donna, che appare finalizzato a far passare la donna per una creatura fragile e indifesa, bisognosa di una figura maschile che le faccia da protettore. È vero che in molte razze la femmina è più piccola del maschio ma da qui ad estendere questa caratteristica anche agli aspetti intellettuali e morali ne passa. Anche l’abbigliamento femminile è descritto attraverso diminutivi o vezzeggiativi mentre mai si parlerebbe del cappellino o della giacchina di un uomo se non con intenti caricaturali. Grande responsabilità riveste infine la figura dell’insegnante nello sviluppare il senso critico delle nuove generazioni, e del giornalista, protagonista indiscusso del processo di mutamento del patrimonio linguistico, del suo arricchimento o, in alcuni casi, peggioramento. Non a caso, quando i mass media trattano un personaggio femminile, focalizzano l’attenzione sulla femminilità del soggetto anziché sul suo comportamento, positivo o negativo che sia, scatenando sentimenti di diffidenza, poiché occupa un particolare ruolo. Anche nelle interviste la formula prevede sempre domande personali, sulla famiglia, i figli, le relazioni, la difficoltà o meno di conciliare il lavoro con le esigenze familiari. Dopo diversi anni di lotte di emancipazione che hanno senza dubbio inciso sull’assetto sociale e politico, il linguaggio della stampa e la lingua quotidiana non si sono completamente adeguati ai cambiamenti avvenuti. La donna continua a essere la grande “esclusa” dalle pagine dedicate alla politica e all’economia, mentre comincia ad affermarsi in quelle dedicate alla cultura e allo sport; emerge con facilità invece nella copertina e nelle immagini pubblicitarie. Nelle riviste femminili spesso gestite da donne, non solo la donna è finalmente presente ma anche il linguaggio utilizzato non è più patriarcale. Tra i molti cambiamenti linguistici avvenuti in questi anni, diversi sono derivati da una precisa azione socio-politica, l’abolizione ad es. di termini come spazzino, serva, giudeo, negro, è stata accettata e assorbita perché non si vuol essere considerati classisti o razzisti; allo stesso modo si dovrebbe giungere a evitare forme linguistiche discriminatorie per non essere tacciati di sessismo. Tutte le forme sopra suggerite sono anch’esse frutto di un’ideologia dichiarata, non più solo di diritti ma di valori laddove “parità” significhi legittimare la differenza e diventi possibilità concreta di sviluppo e realizzazione per tutti, pur nella diversità.

Riferimenti Bibliografici Elena Gianini Belotti, Dalla parte delle bambine, Milano, Feltrinelli, 1970 Raffaelle Fornaciari, Sintassi italiana dell’uso moderno, Firenze, G.C. Sansoni Editore, 1881 Giuseppe Gioachino Belli, Tutti i sonetti romaneschi, a cura di Marcello Teodonio, Ed. integrale, Roma, Grandi tascabili economici Newton, 1998, 2 voll.Commissione Nazionale per la Parità e le pari opportunità tra uomo e donna, Il sessismo nella lingua italiana, a cura di Alma Sabatini, con la collaborazione di Marcella Mariani, Edda Billi, Alda Santangelo, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento per l’Informazione e l’Editoria, Roma, 1993, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato.

NEL NOME DELLA MADRE

08 martedì Lug 2014

Posted by Deborah Mega in NOTE CRITICHE

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archetipo, ciclo della vita, Grande madre


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Statuetta di pietra nota come Venere di Willendorf  risalente al Neolitico e ritrovata in Austria, rappresenta una dea madre.

La sua figura esagerata nelle rotondità, evidenzia la funzione femminile della procreazione.

Perché io sono colei che è prima e ultima
Io sono colei che è venerata e disprezzata,
Io sono colei che è prostituta e santa,
Io sono sposa e vergine,
Io sono madre e figlia,
Io sono le braccia di mia madre,
Io sono sterile, eppure sono numerosi i miei figli,
Io sono donna sposata e nubile,
Io sono Colei che dà alla luce e Colei che non ha mai partorito,
Io sono colei che consola dei dolori del parto.
Io sono sposa e sposo,
E il mio uomo nutrì la mia fertilità,
Io sono Madre di mio padre,
Io sono sorella di mio marito,
Ed egli è il figlio che ho respinto.
Rispettatemi sempre,
Poiché io sono colei che dà Scandalo e colei che Santifica.

​Inno a Iside, rinvenuto a Nag Hammadi, Egitto, risalente al III-IV secolo a.C.

Agli albori della civiltà umana la prima dea ad essere venerata fu la Grande Madre, la donna procreatrice che donava la vita e consentiva la sopravvivenza del figlio nutrendolo col suo latte. Chi meglio di una donna poteva assurgere a simbolo creativo per eccellenza? La donna, in grado di mettere al mondo nuovi esseri viventi, era considerata portatrice di un potere misterioso: il mistero del concepimento e dell’allattamento infatti spinse gli uomini primitivi a venerare colei che dava la vita partorendo un essere umano e che gli consentiva di continuare a vivere fuori dal suo grembo. Ella rappresentava la Terra che dava frutti, la Luna con le sue fasi, le stagioni, il ciclo della vita e la morte. Rappresentava l’origine e la fecondità: il suo ventre rotondo e capiente simboleggiava la capacità di donare la vita trattenendo dentro di sè il frutto fino alla sua maturazione. Le mammelle gonfie rappresentavano la sopravvivenza: dopo aver donato la vita, la donna garantiva il cibo per sua stessa natura. La donna è depositaria dunque della capacità che ha le caratteristiche del prodigio di “creare” e poi trasformare attraverso il sangue, simbolo di vita e di generazione e poi il latte, simbolo e strumento di nutrimento per la preservazione della “specie”. Dalla ciclicità del mestruo femminile derivò la coscienza dello scorrere del tempo: il primo calendario era lunare anziché solare, in esso l’anno era composto da tredici mesi corrispondenti ai tredici cicli mestruali delle donne.

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La Venere di Laussel (Dordogna, Francia), è una Venere paleolitica alta circa 46 cm, scolpita in un bassorilievo e trovata all’entrata di una grotta cerimoniale. Originariamente era dipinta in rosso, colore sacro del sangue e della vita. Nella mano destra regge un corno di bisonte a forma di falce di luna, con 13 tacche incise a simboleggiare il numero di lune o il numero di cicli mestruali in un anno. La mano sinistra poggiata sul ventre indica la relazione fra il ciclo lunare e quello della fecondità femminile.

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Secondo Jung l’archetipo della Grande Madre è «La magica autorità del femminile, la saggezza e l’elevatezza spirituale che trascende i limiti dell’intelletto; ciò che è benevolo, protettivo, tollerante; ciò che favorisce la crescita, la fecondità, la nutrizione; i luoghi della magica trasformazione, della rinascita; l’istinto o l’impulso soccorrevole; ciò che è segreto, occulto, tenebroso; l’abisso, il mondo dei morti; ciò che divora, seduce, intossica; ciò che genera angoscia, l’ineluttabile». I miti e le pratiche religiose dei popoli primitivi, basavano i loro principi su una corrispondenza simbolica : donna = cerchio = conchiglia = vaso = mondo. Il vaso è infatti ciò che meglio rappresenta la funzione del femminile di contenere e custodire la vita, di proteggere e nutrire, mentre allo stesso tempo “racchiude” al suo interno e cela l’invisibile e il mistero. Quello della Grande Madre è un archetipo che possiede una quantità infinita di aspetti essendo allo stesso tempo Donna, Madre, Amante e Sorella. Con il passare dei secoli, ogni civiltà le attribuì nomi diversi, glorificandola come unica fonte di vita dell’intero Universo. Il Vecchio Testamento ce la presenta nella sua forma originaria, Eva/Serpente,  l’animale che sulla Terra è adagiato e compenetrato in essa. La Grande Madre, divinità legata al lavoro della terra e alla ciclicità delle stagioni, sarà sostituita nel tempo da figure maschili che rappresentano il successivo mutamento della struttura socio-economica primitiva: dal matriarcato si passa alla società e alla famiglia patriarcale. Sia che si chiamasse Damona per i Galli, Danu per gli Irlandesi, Brigit per i Celti, Hathor per gli Egizi, Inanna presso i Sumeri, Ishtar presso i Babilonesi, Devamatri, principio astratto della creazione primordiale), Prithvi (nel pantheon indiano è la Dea della Terra, della Natura in tutte le sue forme nonché dea dell’abbondanza), Parvati (adorata nella tradizione Hindu come Dea della Fecondità), Rhea/ Cibele, Gea/ Gaia, Demetra-Cerere, Persefone o Core/ Proserpina, Branwen (Dea celtica “dai bianchi seni” che incarna la Madre Universale), Holle (dea germanica), Iside (Dea egizia consorte di Osiride), Maria, (la Madre di Gesù Cristo),  la Grande Madre rappresenta la fertilità poichè dispensa figli ed abbondanza. La donna ne è la rappresentazione umana e, grazie al legame privilegiato che detiene con la dea, da sempre custodisce i segreti della vita, della procreazione e della guarigione. Nel culto cristiano i suoi archetipi sono stati rimodellati sulla figura di una sola entità femminile, la Vergine Maria. La Grande Madre ha sempre avuto una duplice o triplice rappresentazione: viene infatti identificata sia con la Luna Piena (amica, benedicente e generosa)  con la Luna Nuova (ostile e distruttiva) oppure con la Terra (i regni umani e terreni), e la Morte. I simboli che si collegano alla Grande Madre sono caratterizzati dall’ambivalenza, da una duplice natura, positiva e negativa, quella di “madre amorosa” e di “madre terribile” principio di trasformazione e distruzione. Nei riti connessi alla Dea, infatti, viene venerata sia come simbolo della Natura positiva (da cui la fertilità, l’abbondanza dei raccolti e in generale la prosperità e il nutrimento) che del volto negativo della Natura (le tempeste, la carestia e in generale la morte, e la distruzione) non a caso molte antiche rappresentazioni della Dea Madre avevano il volto metà bianco e metà nero.

La Terra, con tutta la sua potenza creatrice e allo stesso tempo distruttiva è il femminile, l’ origine, il principio da cui discende tutto. La società matriarcale riconosceva alla donna il diritto di congiungersi con gli uomini della sua tribù e di altre famiglie, non esistendo il potere dell’ uomo, la matriarca rappresentava il capofamiglia, la prole era il suo frutto e non era necessaria la certezza della paternità. Il potere della donna durò molti secoli finchè, con l’avvento dell’agricoltura e l’abbandono della vita nomade il concetto di Dio iniziò a cambiare. Presso i babilonesi si intaccò il potere della Dea e si adorò il dio Marduk come creatore del mondo. Con l’ avvento di Marduk, la donna venne relegata in casa, proprietà del maschio che voleva la certezza che la prole provenisse dal suo seme: comparve Lilith, ancora bellissima, apportatrice di tempeste, tentatrice, lussuriosa ma sterile. Da quel momento in poi la donna è stata spesso demonizzata perché perdesse il potere delle origini. Cominciarono a diffondersi credenze e superstizioni sulla tossicità del sangue femminile, considerato impuro.

La Constitutio de purificatione a sanguine mestruo emanata da Costantino I ai tempi del Concilio di Nicea vietava alla donna l’ingresso in chiesa e l’accesso ai sacramenti nei giorni del ciclo. Le credenze popolari hanno fatto perdere di vista il significato reale del proprio ciclo alle donne stesse, anche in ambienti illuminati. Diverse generazioni di donne sono cresciute nella convinzione errata di essere più vulnerabili in quei giorni. La donna per le sue capacità magiche e le sue conoscenze mediche è divenuta una strega malefica da condannare al rogo.

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Gustav Klimt: Le tre età della donna, 1905. Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Roma.

G. Klimt rappresenta un tema ricorrente nella sua opera: la precarietà della vita e della bellezza. L’opera è un’allegoria del ciclo della vita attraverso i momenti della nascita, della fanciullezza, della maternità, della vecchiaia, della morte.
La figura della giovane donna in contrapposizione all’anziana rappresenta la maternità e appare immersa in un’atmosfera irreale e quasi sacra. L’abbraccio della giovane donna è delicato e avvolgente allo stesso tempo. Un particolare evidente nella donna anziana è invece il grembo deformato e ormai divenuto sterile. 
La maternità è un continuum che corrisponde al ciclo della vita: una volta concluso non si esaurisce, ritorna. La donna è certezza del mondo, garante della vita e della continuità della specie. Grazie alla ciclicità la donna si sente sempre più connaturata con il fluire della vita, in sintonia con il pulsare dell’universo.

IO (UNA) MADRE​

Ricordo ancora
il torpore del risveglio
il riemergere al reale
con la mente vuota
incapace di pensare
voci confuse da lontano
attraversano il silenzio
di oblìo simile alla morte.

Dalla cortina di assenza
un ricordo inconsistente
diviene paura concreta.
È viva? È sana?
Provo a muovere le membra intorpidite
anestetizzate da staticità imposta
a lungo protratta.

Un dolore tagliente
mi annebbia la vista.
Mi rispondono
che sei viva sei sana
(Avrò parlato dunque?)
sollevata sprofondo
ancora nell’oblìo.

La prima volta che ti ho visto
mi sei apparsa
un angelo di Dio
il miracolo mio
di donna.
Avevi la pelle di luna
le linee di velluto
il mio stesso odore.

Eri il prodotto puro dell’amore.

Ora il miracolo è svegliarti
scoprendo i segni della crescita
gioire e piangere con te
che sei parte di me
(ancora lì dove sei stata concepita)
la mia miglior parte
il futuro roseo
di attese e di speranze.

Ti accompagnerò
finchè sarà concesso
non ripeterò gli errori
di mia madre
ne compirò di nuovi
quelli che solo le madri fanno
per eccessivo amore.                                                

 

Moltissimi artisti hanno rappresentato il tema della maternità nei loro dipinti.
Basti pensare a tutte le immagini di Madonna con Bambino realizzate nel corso dei secoli in cui è evidente l’espressione fiera e appagata tipica della madre felice e possessiva.
Le donne in particolare hanno scelto di rappresentare scene di vita domestica, dimostrando di saper cogliere  tutta la naturalezza e la spontaneità dei gesti e delle espressioni di quel rapporto speciale che lega madre e figlio.
Tamara De Łempicka, pseudonimo di Tamara Rosalia Gurwik-Górska (Varsavia 1898- Cuernavaca 1980), è stata una pittrice polacca appartenente alla corrente dell’Art Decò. Dopo essere vissuta in Svizzera e a San Pietroburgo giunse a Parigi. Qui affinò il suo stile personale, fortemente influenzato dall’Art Decò ma allo stesso tempo assai originale. Si trasferì in California dove in breve tempo divenne famosa come ritrattista.

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Tamara De Lempicka, “Maternità” 1928

Mary Stevenson Cassatt (Pittsburgh1844- Chateau de Beaufresne 1926) è stata una grande pittrice statunitense. In tempi in cui per le donne non era facile riuscire a realizzarsi, inseguì con successo il sogno di diventare un’artista. Si perfezionò in Europa, tra Roma, Siviglia e Parigi, e nel 1877 fu invitata da Edgar Degas ad esporre i suoi lavori insieme agli Impressionisti, nelle prime mostre da loro organizzate. La Cassatt ha ritratto mamme che consolano, che abbracciano, che baciano, che sono impegnate in una routine quotidiana fatta di bagnetti d’altri tempi, poppate, capelli da spazzolare, panni da rammendare, gite in barca, passeggiate in giardino.

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Mary Stevenson Cassatt, “Louise feeding her Child” 1899

La dimensione intima e familiare ritratta dalla Cassatt ricorda molto da vicino l’incipit del romanzo To The Lighthouse di Virginia Woolf, in cui è descritta una madre che cuce mentre la figlia, appoggiata sulle sue ginocchia, guarda lo spettatore.
La scena di maternità è rappresentata all’inizio del libro per enfatizzare la vita serena della famiglia Ramsey prima della morte della madre e si fissa nella mente del lettore come se si trattasse di un quadro tanto è forte la carica visiva evocata dalle parole.

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Mary Stevenson Cassatt, “Little girl leaning her’s mother knee” 1901

“Sì, certo, se domani fa bel tempo” disse la signora Ramsay.
“Però dovrai essere in piedi con l’allodola” aggiunse. A suo figlio queste parole comunicarono una gioia straordinaria, come se fosse stabilito che la spedizione avrebbe avuto luogo senz’altro, e l’incanto cui aveva agognato, per anni e anni gli pareva, fosse, dopo il buio di una notte e la traversata di un  giorno, a portata di mano. Egli apparteneva, già all’età di sei anni, a quella grande categoria di persone che non riescono a tenere le emozioni separate le une dalle altre, ma lasciando che le prospettive future, con le loro gioie e dolori, annebbiano ciò che effettivamente è, perché, per tali persone fin dalla prima infanzia qualsiasi oscillazione della ruota delle sensazioni ha il potere di cristallizzare e trafiggere il momento dal quale dipendono la tristezza o la radiosità.

(Incipit tratto da To the lighthouse, Gita al faro di Virginia Woolf, 1^ ed. originale 1927, 1^ ed.italiana 1934)

​Virginia Woolf perse la madre Julia Stephen all’età di tredici anni. Già nel saggio Reminiscences la scrittrice rievoca l’impatto doloroso che la morte della madre provocò su lei e sulla sua famiglia; in Gita al faro la figura  di sua madre è magistralmente e amorevolmente  ritratta al punto che la sorella Vanessa, dopo aver letto il romanzo, le scrive:

« A me sembra che tu abbia tracciato un ritratto della mamma che le somiglia più di quanto avrei mai creduto possibile. È quasi doloroso vedersela risuscitare davanti. Sei riuscita a far sentire la straordinaria bellezza del suo carattere… È stato come incontrarla di nuovo… Essere riuscita a vederla in questo modo a me sembra un’impresa creativa che ha del miracoloso… L’immagine che dai di lei sta in piedi da sola e non solo perché evoca ricordi. Mi sento eccitata e turbata e trascinata in un altro mondo come lo si è solo da una grande opera d’arte. »
Il soggetto è la tensione verso il faro, la luce rappresentata dalla madre, che, nel corso del romanzo diviene desiderio di identificazione nella figura materna al fine di ottenerne serenità e stabilità. Lo stesso bisogno di scrittura nasce nella Woolf come ricerca di appagamento e di “luce” nonché come creatività che sostituisce il desiderio di maternità.
Nel romanzo la Woolf, attraverso le vicende della famiglia Ramsay, rievoca le vacanze che con la propria famiglia soleva trascorrere in Cornovaglia. È il ritratto di una donna, sua madre, guida illuminante per tutti, la quale incarna un modello di maternità serena ed appagata nonché una descrizione felice della famiglia inglese di primo Novecento.
Il ritratto costruito dalla Woolf si avvale della caratterizzazione indiretta, viene cioè fornito attraverso i punti di vista degli altri personaggi, i pensieri e i sentimenti che la signora Ramsay suscita in loro.

L’ALTRA FACCIA DELLA MATERNITA’

In contrapposizione alla maternità voluta e realizzata c’è anche un altro aspetto della maternità, quella collegata al rifiuto e alla non accettazione del proprio corpo gravido o addirittura del proprio figlio.
Un esempio di questo tipo di sentimento è rappresentato da diverse opere a cui si farà riferimento, in primo luogo a The Fifth Child [Il quinto figlio] di Doris Lessing. Si tratta di un romanzo molto particolare, claustrofobico quasi, che evoca sensazioni di disagio e di angoscia. Gli inglesi Harriet e David sono una coppia serena, desiderano abitare in una grande casa e avere tanti figli. Dopo averne avuti quattro, sta per giungere il quinto figlio ma fin dai primi mesi di gravidanza, Harriet percepisce che questa gravidanza non sarà uguale alle altre, il feto appare iperattivo e causa alla madre dolori e disturbi che si protraggono per tutta la gravidanza fino a quando la donna non giunge ad avere un parto prematuro. La gravidanza infatti appare travagliata e difficile e in molti aspetti ricorda  quella descritta da Polanski in Rosemary’s baby. C’è una istintiva repulsione della madre per questo essere prepotente e vitale. Quando nasce Ben, appare diverso dai fratelli e sua madre Harriet si trova da sola ad affrontare i suoi sentimenti e i propri fantasmi isolandosi dal resto della famiglia mentre il quinto figlio si rivela “un nemico” che non viene accettato neanche dai fratelli. Viene dapprima relegato nella sua camera poi allontanato e condotto in un istituto dal quale poi Harriet lo riporta in famiglia per scrupoli di coscienza solo che Ben ormai adolescente riesce a disgregare la serenità della vita familiare con la sua sola presenza. Nel corso del racconto viene definito “mostro”, “alieno”, “fatto di una sostanza differente”. Anche il momento dell’allattamento non viene descritto come il momento bellissimo in cui madre e figlio instaurano la loro relazione e si identificano ciascuno nel suo ruolo e nella sua funzione sociale ma come un momento che provoca sgomento e paura.
Anche Sylvia Plath ( Boston 1932- Londra 1963) in Canto del mattino tratta il tema della maternità, una maternità sofferta, fastidiosa per la condizione di passività imposta, per una trasformazione del corpo necessaria che però mina le certezze di una donna, “incespico, pesante come una vacca e floreale / nella mia vestaglia vittoriana”, donna che, estranea a se stessa, veglia per ascoltare il mare a cui ritornare come fosse il proprio liquido amniotico. Perfino il trillo di note del bambino s’innalza in aria come un pallone, non è la dolce melodia che una madre non può non ascoltare senza essere percorsa da un brivido.
Il binomio madre-figlio comprende due soggettività strettamente legate da una “relazione originaria”, come la definisce Galimberti, ma diverse, ciascuna portatrice di bisogni e di diritti talvolta in conflitto. Diversi sono stati gli episodi di rottura del binomio in modo violento ad opera di uno dei due elementi, episodi che la cultura dominante condanna e critica perché irrazionale, illogica, inspiegabile. Ciò che appare certo è che ciascuna maternità andrebbe riscoperta e intesa come rinascita del sé, solo così la si può vivere in modo costruttivo, positivo, etico.

​​CANTO DEL MATTINO

Come un grasso orologio d’oro l’amore ti mise in moto.
La levatrice schiaffeggiò le piante dei tuoi piedi, e il tuo grido pelato
prese il posto tra gli elementi.
Le nostre voci echeggiano, magnificando il tuo arrivo. Nuova statua.
In un museo percorso da correnti d’aria, la tua nudità
adombra la nostra sicurezza. Ti attorniamo vacui come mura.

Non sono più tua madre io
della nuvola che distilla uno specchio per riflettervi la sua propria lenta
cancellatura per mano del vento.

Tutta la notte il tuo fiato-di-falena
ondeggia tra le rosee lisce rose. Veglio per ascoltare:
un mare lontano muove nel mio orecchio.

Uno strillo, e dal letto incespico, pesante come una vacca e floreale
nella mia vestaglia vittoriana.
La tua bocca s’apre nitida come quella d’un gatto. Il riquadro della finestra

s’imbianca e ringoia le sue tetre stelle. E ora tu provi
un tuo trillo di note;
le chiare vocali sorgono come palloni d’aria.

​Sylvia Plath

 

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